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L'UMANITÀ
(L'HUMANITÉ)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 maggio 1999
 
di Bruno Dumont, con Emmanuel Schotté, Séverine Caneele, Philippe Tullier (Francia, 1999)
 
Un film duro, scostante, com'era stato il suo primo LA VIE DE JESUS, dei personaggi rassegnati alla condizione immutabile di quel nord della Francia dai villaggi incastrati nella pietra, semideserti nello sferzare del vento o annichiliti dalla calura estiva, l'assenza di prospettive, ideali, entusiasmi degli abitanti dispersi nella pianura solcata dall'indifferenza dell'autostrada sullo sfondo, dalla linea argentea, irridentemente futurista del TGV, un universo personale, sconsolante ma al tempo stesso animato da una specie di fede istintiva, laica che Bruno Dumont andava a scovare sotto l'animalesca brutalità, la violenza ancestrale dei personaggi, tutto ciò era troppo forte, prepotente per scomparire fra le pieghe volubili dello spettacolo cinematografico.

Ed ecco infatti riaffiorare tutto ciò con un titolo di quelli che ancora spaventano, L'UMANITÀ; ancora Bailleul, la cittadina natale del regista nella regione del Pas de Calais, con una di quelle che a definirle storie uno ci pensa due volte. Quella, vagamente gialla, di un appuntato di polizia solitario e taciturno, che si chiama Pharaon de Winter come la strada in cui abita, come il pittore suo antenato (1849-1924) che per realizzare i dipinti religiosi raccolti nel museo di Lilla frequentava ospizi e manicomi della regione. L'esistenza di Pharaon, cosi come quella del film, e forse dello spettatore è segnata per sempre dal fotogramma sconvolgente che lo apre: quello del sesso violentato, esposto nel corpo livido di una ragazzina di 11 anni che Pharaon scopre in mezzo ai campi. L'UMANITÀ, l'arco esistenziale del film sarà allora quella che separa quell'immagine terribile da un'altra altrettanto esplicita. Ma più vicina alla nostra memoria culturale (perché identica, anche nella prospettiva a quella celeberrima dipinta da Courbet nell'"Origine du Monde"); oltre che rassicurante perché assimilata ed arcaica: il sesso vivo, altrettanto esposto nella sua evidenza rigogliosa, della vicina di casa di Pharaon. Domino, giovane, monumentale bellezza popolare, greve di animalità quando si concede al fidanzato; ma pure capace di rigurgiti di affetto quando si accorge della solitudine del vicino; o di qualche soprassalto sociale, se partecipa ai velleitari moti di rivendicazione sociale nella sua fabbrica.

Come quei due sessi, diversi ma altrettanto tragicamente tormentati, L'UMANITA` vive di una sua presenza enorme, dalla quale molti si discosteranno, ma all'interno della quale altri troveranno mille ragioni di vita e di riflessione. Oltre che la presenza di un mondo, di una visione la cui forza (al di là di eventuali riserve o imperfezioni) sarebbe assurdo negare.

Un impatto visionario che si alimenta della propria duplicità. Da un lato, della sua sensualità. Quella che la radica alla terra con una forza ancestrale, incollata alla zolla odorosa, quella alla quale si abbarbica disperatamente Pharaon sconvolto dalla sua scoperta; quella che innaffia, con metodica, antica ritualità nel suo orto dove finiscono le case. Sensualità contemplativa di un ambiente, colto nella sua memoria fisica, cosi come nelle sue risonanze spirituali e psicologiche: straordinaria domenica al mare, il silenzio interminabile, quasi becero, ma pure incoscientemente avido di una consolazione che giunga dell'esterno, da un aldilà intuito, forse ed ancora per poco: "Toh, si vede l'Inghilterra". E, quando lo spiraglio straniante scompare nella foschia spumosa della sera,, quando è ora di tornare al villaggio dai rari passanti, "guardate, ora non la si vede più".

Sensualità di una fisicità che abbraccia gli elementi cosmici, le pietre come quegli individui cosi poco dissimili, ormai da una condizione minerale. Ma fisicità espressa semplicemente, direttamente, mai intellettualmente: come quando Pharaon inforca maldestramente la bicicletta per annullarsi nella strada della campagna immensa, per annientare la propria angoscia nella fatica della salita, abbandonarsi alla propria beata, immota staticità lungo la discesa. O quelle sequenze, apparantemente anonime, ma cosi vicine alla dimensione dilatata di quegli spazi, quell'isolamento, quei tempi interminabili: la cena alla trattoria, con in vicini che intonano le litanie del sabato sera; l'inchiesta salutarmente ridicola eppure verosimile dei poliziotti di campagna; le minuscole perle di sudore che Pharaon osserva formarsi sul collo del commissario, da sempliciotto ma abituato ad osservare le formiche; la visita al museo, lo splendore spropositato in tanto squallore, ma pure l'importanza di quel quadro che Pharon ha appeso sopra il suo letto. "Come in quei pittori fiamminghi, cerco d'isolare l'individuo, di ritrarre l'uomo qualunque, tolto dal suo contesto sociale", dice l'autore.

Ed infatti, puntualmente, la sensualità, la fisicità sono contraddette (ed è proprio su questa opposizione che si afferma il film) dalla precisione estrema, dal ragionamento continuo, dal rigore architettonico che sentiamo guidare lo sguardo di Bruno Dumont. Da quel suo modo di porre i suoi scarsi personaggi (tutti non professionisti: cercati per mesi, fino a trovarli aderenti, nella loro gestualità, ai personaggi pensati) sulla scacchiera dello spazio compreso dalla cinepresa. E di avvcinarsi quindi ai corpi: nella loro sessualità, affrontata affannosamente perché conscia di non poter raggiungere la felicità e l'amore.

Il cinema di Dumont è quello del corpo. E del mondo, ormai non più quadro sociale, nel quale quel corpo fatica ormai ad entrare. Il modo con il quale il regista cerca di uscire da questa impossibilità, l'assunzione cristica di tutte le disgrazie del mondo da parte dei suoi personaggi positivi (e del suo protagonista in particolare) può anche disturbare. Forse, perché Dumont non è ancora saputo tradurla armoniosamente. Quando ci sarà riuscito, il cinema potrà contare su un nuovo Bresson o un nuovo Antonioni.


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